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Dickens – L’uomo che inventò il Natale emoziona e non delude

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In Dickens – L’uomo che inventò il Natale Dan Stevens interpreta un giovane Charles Dickens: finalmente sul grande schermo un Dickens energetico, affascinante ed eccentrico. Il film è un biopic sui generis che si fa carico dell’ingrato compito di raccontare uno scorcio temporale limitato, ovvero pari alle sei settimane precedenti alla pubblicazione de Un canto di Natale. Questa scelta ha inevitabilmente implicato l’eccessiva drammatizzazione di alcuni aspetti della vita di Dickens, per questo decidiamo subito di perdonargli la ricorrente allusione ai tre presunti “flop” precedenti alla novella di Natale.

Ma che cosa stava realmente accadendo nella vita di Dickens?

Martin Chuzzlewit “è per un centinaio di motivi in assoluto la migliore delle mie storie,” diceva. Ne era convinto. Eppure le vendite degli episodi mensili non riuscivano a decollare. Sia chiaro, quando si parla di Charles Dickens non esistono veri e propri flop in termini di vendite, ma la media delle copie di Chuzzlewit vendute ogni mese si aggirava attorno alle 20.000, a malapena la metà dei volumi raggiunti da ll circolo Pickwick e Nicholas Nickleby.

I soldi erano una preoccupazione costante per Dickens, e il film non manca di ricordarcelo a più riprese: un padre sempre coperto di debiti, una famiglia sempre più bisognosa di soldi, un’immagine da difendere e un certo stile di vita da mantenere. Alla fine dell’anno precedente il suo conto in banca contava solo 20£ (c.ca 1.900£ odierne), e ne doveva ben 1.800£ (oggi c.ca 170.000£) ai suoi editori Edward Chapman & William Hall. Hall, preso dal timore che Dickens non fosse in grado di ripagare la cospicua somma, decise di fare appello a una clausola del contratto siglato due anni prima che permetteva agli editori di detrarre 50£ al mese dal compenso mensile convenuto per la scrittura di Martin Chuzzlewit. Dickens divenne furioso. Proprio Chapman & Hall, che si erano arricchiti con i ricavi stellari delle sue storie, gli voltavano le spalle. “Sono intenzionato a ripagare l’intera somma,” scrisse a Forster “e quando l’avrò fatto, Hall dovrà vedersela con me.” Richiese che le prime 50£ fossero sottratte immediatamente dal suo stipendio e ordinò a Forster di rivolgersi a un nuovo editore, Bradbury & Evans. Proprio questa instabilità finanziaria è l’intelligente punto di partenza del film: la scena nell’ufficio di Chapman & Hall rivela un notevole lavoro di ricerca con uno scambio di battute che soddisfa lo spettatore più esigente con riferimenti a cifre, clausole e fatti reali.

Inevitabile notare che il regista si concede qualche libertà per trasmettere il profondo senso di crisi a questo punto della carriera di Dickens. Partiamo da un concetto fondamentale: Dickens non ha mai avuto il blocco dello scrittore, o almeno non nel modo descritto dal film. Ma tutta la sua frustrazione è racchiusa nel pensiero che il giovane condivide con apparente leggerezza con la moglie Catherine una sera prima di dormire: “Sono stanco di scrivere forsennatamente per soldi.”

Nonostante gli intoppi più o meno romanzati nella pellicola, Dickens continuava a scrivere senza sosta. O quasi. Pur nel bel mezzo dell’impresa della pubblicazione di un romanzo a puntate, si ritagliava del tempo per dedicarsi a uno dei suoi nuovi passatempi preferiti, cioè la partecipazione a serate di beneficenza a favore di cause di vario genere, come ci racconta il film. Una di quelle che più gli stava a cuore era ー avete indovinato ー la povertà infantile. Di certo Dickens aveva già dato il suo contributo sociale al tema del lavoro minorile con Oliver Twist, ma questa volta voleva scrivere qualcosa di specifico per commentare l’uscita del Secondo Report della Commissione Parlamentare sull’Occupazione dei Bambini. L’idea originale era quella di scrivere un trattato intitolato Un appello alla gente d’Inghilterra, da parte del Figlio dell’Uomo Povero. Gli ci vollero pochi giorni a capire che avrebbe potuto scrivere qualcosa che avesse “ventimila volte la forza” della sua idea originale. La nuova idea era proprio A Christmas Carol.

Per la prima volta Dickens decise di abbandonare la pubblicazione a puntate: Un canto di Natale sarebbe stato pubblicato in un colpo solo, perché i lettori potessero leggerlo tutto d’un fiato. Sarebbe stata l’opera che l’avrebbe tirato fuori dai debiti, che gli avrebbe permesso di andarsene finalmente a vivere stabilmente all’estero, per ampliare la sua “gamma di descrizioni e osservazioni” raccogliendo esperienze e stimoli da posti del tutto nuovi. O almeno, questo era il piano.

Più ci pensava, più l’idea di un libro sul Natale s’impossessava di lui. Non che le storie sul Natale fossero una particolare novità. D’altra parte aveva già parlato del Natale anche nel numero del gennaio 1837 de Il circolo Pickwick e in altre occasioni l’idea di scrivere una storia esclusivamente dedicata al Natale gli era frullata in testa. Iniziò a scrivere appena dopo essere tornato da un viaggio a Manchester. In pochi giorni tutte le sue principali preoccupazioni confluirono nel racconto: il denaro, il tempo, l’amore, l’ambizione, la povertà, l’ingiustizia, la vita e la morte. E molti dei luoghi della sua infanzia gli tornavano alla mente: è ormai opinione universalmente accettata che la casa della famiglia di Tiny Tim rappresenti una trasposizione piuttosto fedele di quella in cui andò a vivere un giovane Dickens quando con la sua famiglia si trasferì per la prima volta a Londra.

Impiegò circa un mese a scrivere la storia. Arrivato alla fine, si decise: si sarebbe assunto le spese di stampa e distribuzione, ma questa volta tutti i guadagni sarebbero stati suoi. Fino ad allora, diceva lui, nonostante l’incredibile rapidità del suo successo e il costante aumento della sua popolarità, gli enormi profitti dei suoi libri erano finiti in mani diverse dalle sue.

Il processo creativo di Un canto di Natale si presta particolarmente ad essere romanzato e trasposto sul grande schermo, compito che il film Dickens – L’uomo che inventò il Natale assolve in modo egregio. Lo stesso Dickens raccontò di aver “pianto, e riso, e pianto ancora, ed essersi esaltato nella maniera più straordinaria durante la composizione,” camminando per “le buie strade di Londra per quindici o venti miglia, per molte notti durante le quali la gente sobria se n’era già andata a letto.” Mi sento però di giudicare un po’ troppo forzati i riferimenti costanti agli anni di Dickens nella fabbrica di lucido da scarpe Warren. Se da un lato è innegabile che il pensiero lo perseguitò per tutta la vita, dall’altro non è realistico pensare che Dickens avrebbe rischiato di rivelare al mondo il suo tragico passato recandosi proprio nel luogo che tanto lo tormentava. A livello cinematografico può essere comprensibile la scelta di voler drammatizzare il suo arrivo alla fabbrica, ma non laddove la realtà dei fatti avrebbe potuto essere ancor più drammatica: non era solamente il dolore fisico a traumatizzare il piccolo Charles, ma soprattutto la vergogna di essere messo a lavorare accanto alla finestra, sotto lo sguardo sdegnato dei passanti, testimoni diretti della distruzione di ogni sua ambizione.

Il film ci mostra giustamente un Dickens sempre deciso a fare le cose in grande: il formato di stampa di Un Canto di Natale infatti sarebbe stato dei più eccezionali, con numerosi dettagli e taglio dorati. John Leech avrebbe realizzato le illustrazioni. Dickens voleva a tutti i costi il verde all’interno, per creare un’associazione sia con la natura (era già di uso comune l’utilizzo di piante e fiori per decorare le case a Natale) sia con il colore delle sue uscite a puntate ma dovette rinunciarvi poiché la resa finale risultò pessima, “festosa quanto un’oliva stantia.” Alla fine si optò per il blu, e diversi giorni furono spesi a correggere numerosi errori di stampa. Dickens non accettava polemiche riguardo il prezzo: 5 scellini, non di più. Nel film però salta all’occhio un particolare errato: con somma soddisfazione, John Forster (Justin Edwards) consegna a Dickens un pacco contenente una copia del libro stampato e pronto per essere venduto. Peccato che, laddove era inevitabile e assolutamente necessario riprodurre la prima edizione del libro nella sua storica copertina a metà tra il marrone e il salmone, appare una riproduzione rossa! Scelta cinematografica oppure semplice svista? (In foto a lato la prima edizione del libro, immagine di Peter Harrington Rare Books)

Un canto di Natale fu pubblicato il 19 dicembre 1843 e la vigilia di Natale 6.000 copie erano già state vendute. Un successo incredibile, praticamente inarrestabile almeno fino all’arrivo dell’estate. A maggio era già stata stampata una settima edizione. Il 3 gennaio l’autore, colmo d’orgoglio, scrisse che il libro era “un successo prodigioso ー il più grande, credo, che io abbia mai raggiunto.”

E qui, con una splendida citazione di Thackeray e un albero di Natale addobbato a festa, si conclude il film, rallegrando i cuori degli spettatori con un affettuoso e accorato lieto fine.

Peccato che la parte più avvincente della storia doveva ancora cominciare.

All’inizio del nuovo anno Dickens venne a sapere che Chapman & Hall (che aveva personalmente pagato perchè stampassero e distribuissero il libro per suo conto) non erano riusciti a piazzare annunci pubblicitari in quasi nessuno nei giornali usciti nel mese di dicembre. Dickens divenne furioso e sempre più preoccupato. La moglie era di nuovo incinta, il padre si era rifatto vivo per chiedere dell’altro denaro, e a lui non restò che prendere un ulteriore prestito di 200£ (c.ca 20.000£ odierne). Era al verde. Come se non bastasse il numero 16 della rivista Parley’s Illuminated Library, in vendita a due scellini, pubblicò Un canto di Natale in una versione “analiticamente condensata” rispetto al racconto originale. In altre parole, una versione pirata. Dickens ne ricevette una copia nel pomeriggio del 6 gennaio e per il lunedì mattina aveva già provveduto a far registrare i diritti della sua novella. Trovandosi a combattere legalmente un avversario che era completamente dalla parte del torto, non fu difficile vincere la causa. Peccato però che i pirati dichiararono bancarotta e Dickens dovette farsi carico di tutte le spese legali che raggiunsero la cifra astronomica di 700£, pari a circa 80.000£ odierne.

Arrabbiato, ingannato e indebitato, a Dickens non rimaneva che riporre le proprie speranze nei ricavi di Un canto di Natale. Il 10 febbraio arrivò il tanto atteso bilancio, e fu il disastro. La prima edizione gli aveva portato un guadagno di sole 137£ (oggi c.ca 16.000£). I costi troppo elevati avevano ridotto all’osso i guadagni nonostante le vendite astronomiche. Quello che trovate a seguire è l’elenco dell’impatto delle singole voci di spesa sui ricavi totali della prima edizione.

  • Rilegatura: 18,14%
  • Pubblicità e varie ed eventuali: 16,96%
  • Commissione degli editori: 15%
  • Colorazione delle tavole: 12,09%
  • Carta: 8,98%
  • Stampa: 7,47%
  • Realizzazione di illustrazioni e tavole: 5,02%
  • Stampa delle tavole: 1,6%
  • Carta per le tavole: 0,77%
  • Incisione di due tavole con acquaforte: 0,12%
  • Totale spese: 86,12%
  • TOTALE RICAVI: 992,25£

Preso dalla disperazione, Dickens scrisse all’amico Forster:

Non credo sarò in grado di rialzarmi prima di aver superato gli orrori della febbre. Rientrando ho trovato il bilancio del Canto ad aspettarmi ed è stata proprio quella la causa. […] Che cosa meravigliosa è che un tale successo debba arrecarmi un’ansia e una delusione così insopportabili! I conti di quest’anno che debbo ancora saldare sono tremendi a tal punto che tutta l’energia e la determinazione che sono in grado di dispensare serviranno a pulirmi dai debiti… Non avrei da temere se riuscissi a ridurre le mie spese; ma se non ci riuscissi, sarei rovinato aldilà di ogni speranza mortale di redenzione.”

Ancora una volta pieno di rabbia, Dickens scrisse una lettera furiosa ai suoi editori, accusandoli di essere stati incapaci di gestire il progetto e ovviamente senza considerare che fosse stato proprio lui a imporre il prezzo di vendita e il formato eccessivamente costoso. La sua furia produsse un effetto limitato, convinse infatti gli editori ad abbassare la loro percentuale e gli fu inviato un assegno che portò il suo compenso a circa 186£ (c.ca 21.700£ oggi). Ma per lui non era abbastanza: “Chapman & Hall hanno chiuso con me, morti e sepolti. Non c’è modo in cui possano rimediare.”

Superato, per così dire, lo shock iniziale, Dickens risolse di mantenere segreta la faccenda. La percezione esterna era quella di un successo senza precedenti e tale doveva rimanere. Nel frattempo era determinato a trovarsi un nuovo editore entro l’estate. Il suo piano andò a buon fine e, recuperato qualche soldo dalla negoziazione di parte dei diritti dei suoi romanzi, alla fine di luglio Dickens si trovava già nella Villa di Bella Vista, poco lontano da Genova, a pensare al suo prossimo libro di Natale, Le campane, in uscita con Bradbury & Evans. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

Nel complesso Dickens – L’Uomo che inventò il Natale risulta un compromesso convincente tra un prodotto di intrattenimento e un degno omaggio alla prima pop star della storia – “l’inimitabile” Charles Dickens. Un film che ci saluta invitandoci a riflettere: quanto di Dickens – e di ognuno di noi – c’è in Scrooge? Una risposta da trovare nel passato, nel presente, nel futuro. E perchè no, al cinema dal 21 dicembre con Dickens – L’Uomo che inventò il Natale!

  • Michael Slater, Charles Dickens, Yale University Press, 2009
  • Robert L. Patten, Charles Dickens and his Publishers, Clarendon Press, 1978

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Sei sul blog di Laura Bartoli

Da anni studio, colleziono e traduco Charles Dickens. Sono una digital strategist appassionata di libri antichi e viaggio alla ricerca dei luoghi dove il tempo si è fermato all’età vittoriana. Clicca qui per conoscermi meglio!